Roberto Osculati, L’evangelo di Luca, IPL/ITL, Milano 2002, pp.286 in “Il piccolo” 82 (2003) n. 4, 21. Continuando il suo itinerario all’interno del Nuovo Testamento, cominciato col Quarto Vangelo, Osculati ha scelto nel suo ultimo lavoro di confrontarsi col terzo dei Sinottici: Luca. La veste dell’opera nella forma (esteriore) e nel contenuto si pone in linea con il volume precedente. I richiami a Giovanni scandiscono questa lettura davvero originale di Luca, valutato e analizzato sia come scrittore sia come uomo, in grado di comunicare un messaggio chiaro e immediato all’umanità di ogni tempo.
Luca esordisce diversamente dagli altri evangelisti, con una vera e propria presentazione letteraria del suo vangelo, indirizzato e dedicato “all’illustre Teofilo”, perché si renda conto della solidità degli insegnamenti che ha ricevuto. L’obiettivo immediato, come nota O., è di scrivere un racconto che si collochi perfettamente in quella tradizione di fatti ed eventi che nella vicenda di Gesù trovano il loro compimento. Tutta la storia sembra convergere in un uomo, Gesù di Nazareth, che vi irrompe quale segno di contraddizione, rovesciando le categorie e le strutture di un mondo apparentemente consolidato. Luca, puntualizza O., per spiegare tutto questo crea “un accurato ed artistico ordinamento”, scandito da scenografie, in cui gli episodi narrati costituiscono le tappe di un percorso ben preciso, che ha un inizio, ma solo visivamente una fine: la morte in croce.
O. ribadisce in più parti del suo volume la consapevolezza che l’evangelista dimostra nell’uso dello strumento narrativo: tanti quadri sono dipinti per campeggiare a tinte forti davanti agli occhi e poi nella memoria del lettore, tutti sapientemente ordinati in un percorso che comincia e finisce nello stesso luogo: Gerusalemme. L’evangelo di Luca esordisce con la figura di Zaccaria al tempio, il luogo del culto, amministrato perché ad ogni richiesta corrisponda un sacrificio, alla gratitudine un’offerta. Qui inizia la vicenda di Gesù, col profumo dell’incenso che anticipa e prepara l’incontro col divino: “finalmente è giunto il momento in cui le richieste più pure ed umili sono esaudite, le promesse si adempiono, le attese sono soddisfatte”. Tutto si concluderà ancora una volta a Gerusalemme con l’apparizione del Risorto ai discepoli.
Questa storia ha un solo protagonista, ma tanti attori, pensati dall’evangelista costantemente come creature dinamiche, pronte, coerenti col compito di cui si sentono investite. Nella terza parte del suo volume O. interpreta questa visione lucana intitolando i paragrafi che raccontano le difficoltà e la vita dei discepoli (Luca 9,51-19,27) con voci verbali poste all’infinito, sintesi delle azioni fondamentali e paradigmatiche di un’umanità sempre in movimento, desiderosa e caparbia nel volere far parte dell’immenso flusso della vita. Il vero discepolo deve andare e seguire ( gli operai della messe), fare, ascoltare e pregare (il buon samaritano, Marta e Maria), conoscere se stesso (l’indemoniato, il fariseo), cercare e vegliare (l’amministratore fedele, l’attesa), scegliere ( il fico sterile, il granello di senape, il lievito), trovare e donare (il figliol prodigo), badare a se stesso ( il giovane ricco), credere e agire (il cieco di Gerico, le dieci mine). Tra le figure esemplari di questo alto grado di autocoscienza e consapevolezza del mondo O. sembra preferire quella dell’”uomo che aveva due figli”, la figura di uno “stranissimo” padre, che accoglie la sua creatura dispersa per aver cercato nel posto sbagliato la pace e la felicità. Non a caso la copertina stessa di quest’intenso commento reca la toccante interpretazione pittorica che Rembrandt realizzò pensando al racconto lucano. Dell’originale racconto evangelico O. ammira non solo la sottigliezza narrativa ma anche la portata universale del tema proposto: chi prende coscienza di se stesso e della propria esistenza inevitabilmente compie un cammino inverso, alla costante ricerca di ciò che gli manca e di cui ha sete. Nessuno è migliore di un altro nel compiere questo percorso, perché “la giustizia del regno non esalta nessuno e non respinge nessuno, è piuttosto uno sforzo continuo per conservare quanto è stato raccolto e per cercare quanto non è stato trovato”. L’assurdità della croce trova allora una spiegazione: nei due legni incrociati è il punto d’incontro tra l’umano e il divino. Ogni uomo che sceglie di spalancare le braccia ad una vita fatta di gioie e dolori e di mantenere lo sguardo sempre rivolto verso l’alto, ripercorrendo l’esperienza di Cristo, diventa in ogni luogo e in ogni tempo creatura amata, a perfetta immagine e somiglianza del Padre. Sulla croce è la vera liberazione, su di essa tutti gli uomini sono uguali. Arianna Rotondo |